Negli anni, ho dedicato molto tempo alla lettura e alla ricerca sul ritratto, genere che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella diffusione della fotografia sin dai suoi esordi. Ho approfondito la parte storica, interessandomi, però, anche alle fonti che riguardano il contesto attuale per gli intriganti spunti di riflessione che spesso offrono. Avendo a che fare quotidianamente con le immagini e, dunque, anche contanti ritratti di stili diversi, mi sorge spontaneo un interrogativo: quali sono gli obblighi che un fotografo ha nei confronti del soggetto che sta ritraendo? Qual è il suo ruolo nella realizzazione dello scatto? Quanto è libero di intervenire nella scelta della posa e dell’atteggiamento del suo modello e quanto può spingersi
nella postproduzione senza lasciarsi tentare dal perseguire la propria idea di estetica o senza conformarsi all’idea preconcetta che ha del personaggio? Ma c’è un altro quesito che mi pongo in parallelo: il soggetto “riconosce” se stesso? Cioè, il risultato rispecchia l’immagine che ha di sé o quella che crede gli altri abbiano di lui?
Ho trovato non le risposte ma i miei stessi interrogativi in un libro del gennaio 1976 che ho scoperto studiando in rete e che, poi, ho acquistato per sviscerare l’argomento, Ritratto, identità, maschera di Carlo Gajani, artista sperimentale emiliano. Una pubblicazione di nicchia, un gioiellino a tiratura limitata e numerata, ormai quasi introvabile, che si è aggiunto alla mia libreria. Gajani fotografa numerosi personaggi famosi dell’epoca e a tutti pone le medesime quattro domande che mirano “a formulare in modo interrogativo il nucleo dei problemi più pertinenti riguardo al fare un ritratto oggi, all’uomo moderno” * . E le risposte, che non anticipo, specie quelle date da Italo Calvino che già stava lavorando intorno a questo tema, sono illuminanti.
Che dire del ritratto di questo giovane? Il bianco e nero lo rende austero, la posa del capo leggermente inclinata e lo sguardo un po’ assente, pur puntando in camera, lo rendono distaccato, quasi che essere fotografato sia un obbligo necessario cui sottoporsi. Il taglio stretto mette in risalto il volto (ma un po’ troppo spazio, forse, è stato concesso alla parte bassa del fotogramma). La maggior parte dei ragazzi è così, poco avvezza ad uno scatto “canonico”, abituata ad un mondo veloce, di corsa, ancora più pratico e tecnologico delle reflex o delle mirrorless per non parlare di altro precedente. Se escludiamo la scelta monocromatica, che di per sé indirizza la lettura connotativa del significante, questo è un ritratto spontaneo, non artefatto, la pelle non è imberbe e liscia, levigata simil-plastica come nel fotoritocco esasperato, l’atteggiamento non è da macho egocentrico, spavaldo e sciupafemmine, ma è quello di un qualsiasi giovane uomo alla ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo. Allora mi chiedo, per chiudere il cerchio, quanto questa affascinante fotografia, esattamente com’è, sia davvero il risultato della condivisione degli obiettivi tra i due protagonisti di questo processo. La risposta tuttavia non la saprò mai e, nell’ammirare questa interessante immagine, intensa e poetica, di una quotidianità disarmante, mi sorgono, come ogni volta, altre mille domande.
Susanna Bertoni, Direttrice Dipart. Comunicazione FIAF
* Carlo Gajani, Ritratto, identità, maschera, Pollenza Macerata, La Nuova Foglio, 1976, p. 232