Una foto per me molto triste. Opprimente nel taglio, opprimente nel soggetto. Lo sguardo vuoto della bimba, a traino di un destino che occlude la vista sul futuro. E chi traina ha altresì un aspetto mesto, il capo chino sul peso della sofferenza e responsabilità. In controcampo una figura che si allontana, lasciando la bimba e l’adulto ancora più soli. Un padre e una figlia accomunati da un medesimo percorso, lascia intendere una foto che a mio avviso non da via di scampo.
Naturalmente la realtà potrebbe esser diversa dalla mia interpretazione dell’icona fotografica, ma il fotografo, attraverso le sue scelte al momento dello scatto, mi invita alle considerazioni espresse.
Divagando da questa foto, ma prendendone spunto per una riflessione personale, mi domando sempre le motivazioni per cui vengono scattate le fotografie in cui il “dramma umano” viene posto all’evidenza dello spettatore.
Tralasciando chi dell’occhio ha fatto un mestiere, e pertanto segue logiche commerciali (affermazione peraltro comunque assolutamente opinabile dal punto di vista etico), rimanendo invece nell’ambito della fotografia dilettantistica (per diletto) mi chiedo, ovvero mi piacerebbe sempre chiedere all’autore di questo genere di immagini; Hai voluto, tu fotografo, cambiare qualcosa? Hai voluto evidenziare e denunciare un sopruso, una indifferenza, una mancanza di sensibilità pubblica verso una certa situazione? Hai voluto migliorare la situazione di vita dei soggetti ritratti? Hai posto in evidenza un lato positivo della loro situazione? La domanda che mi dovrei porre sempre è: “ In cambio della loro immagine, io cosa offro a loro, ovvero cosa ho dato?” ….. e non si tratta mai di soldi.
Quando si entra in contatto con un soggetto “debole” la nostra motivazione deve essere “forte”. Diane Arbus ha molto da insegnare in questo senso. Ma le stesse idee guidavano i fotografi che hanno fotografato il Biafra.
A mio avviso ritengo che in ambito amatoriale solo una importante motivazione ideologica e personale possa autorizzare eticamente a scattare e mostrare le fotografie della sofferenza, nella consapevolezza che stiamo facendo qualcosa per i nostri “soggetti” (che sono persone, razza umana, non vasi di fiori o gattini), mentre altrimenti ritengo sia meglio astenersi nel rispetto del nostro prossimo.
Forse ci vorrebbero veramente più fotografi che, evidenziando quanto di buono le associazioni, i familiari, gli amici, fanno per le persone più deboli, riducessero il senso del “diverso” molto spesso latente e strisciante, facendo conoscere e scoprire realtà ricche di rispetto, serenità, voglia di mettersi in gioco, che la nostra vita moderna ci invita subdolamente ad ignorare.
Gabriele Caproni